Emanuele Quarta
Avanti.it
Come ampiamente previsto, Erdogan ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali turche e si appresta a governare per altri cinque anni (e chissà per quanti altri ancora) un paese il cui timone è saldamente nelle sue mani da vent’anni, periodo in cui il Sultano, come lo chiamano i suoi nemici per sottolineare la natura dispotica ed autoritaria del suo governo, ha tenuto la Turchia in mezzo a due fuochi, districandosi abilmente fra le pressioni degli alleati e le proposte dei paesi rivali o nemici.
Il ballottaggio di ieri ha sancito la vittoria del presidente uscente che ha conquistato il 52,8% dei voti degli elettori, pari a poco meno di 28 milioni di preferenze espresse dal popolo turco. Una vittoria che, per la prima volta da quando ad Ankara si vota direttamente il presidente (dal 2014, dopo una riforma voluta proprio da Erdogan) e che soltanto dal 2018, sempre per una riforma voluta da Erdogan, si vota per un presidente “esecutivo” (cioè inserito in un sistema di tipo presidenziale), è arrivata soltanto al ballottaggio, visto che al primo turno il Sultano non è riuscito ad arrivare alla vittoria per una manciata di voti, fermato dal suo avversario Kiliçdaroglu sul 49,2%. Per molti osservatori occidentali, il risultato del primo turno è stato il segnale di un paese stanco dopo lunghi anni di potere e dominio quasi indiscusso; segno premonitore di una possibile vittoria di Kiliçdaroglu, il beniamino della stampa occidentale, al secondo turno (che aveva fatto intendere di non avere intenzione di accettare la sconfitta al secondo turno, chiedendo a tutti i turchi di prepararsi a scendere in strada per difendere la democrazia). Tuttavia, il secondo turno ha confermato sostanzialmente gli elettori dell’uno e dell’altro contendente e allora è stato facile per Erdogan incassare altri cinque anni di governo. È chiaro, però, che il ventennio erdoganiano – si perdoni il neologismo – non è il frutto del caso o della sua natura autoritaria, la cui evidenza è innegabile; c’è in effetti qualcosa di più profondo che porta i turchi, almeno la metà abbondante di essi, a scegliere sempre e soltanto Erdogan. Per i turchi, soprattutto quelli delle zone rurali, per la nuova giovane imprenditoria rampante e buona parte della classi popolari, Erdogan rappresenta l’uomo che ha preso in mano un paese in grave crisi economica nel 2003 e l’ha portato ad avere una crescita mai vista prima, con tassi che hanno sfiorato l’8% di crescita annua del Pil, investimenti in infrastrutture, welfare, scuole, sanità e persino il potenziamento della rete ferroviaria. Quindi Erdogan, nonostante le aspre critiche e la forte repressione che contraddistingue il suo governo, rimane per i più colui che ha reso la Turchia una potenza, un paese moderno e ricco, nonostante negli ultimi anni la crisi monetaria e l’inflazione stiano affliggendo soprattutto le fasce deboli della popolazione. Ma la vittoria di Erdogan è comunque maturata all’interno di un contesto politico, quello turco, che per noi occidentali è difficile da comprendere, soprattutto se si applicano le categorie politiche cui siamo abituati.
Il quadro politico turco
Erdogan è leader indiscusso non solo della Turchia ma anche del Adalet ve Kalkınma Partis – AKP (in italiano, Partito Giustizia e Sviluppo). Un partito che, secondo i suoi stessi esponenti, è definito come democratico e conservatore, mentre per osservatori ed analisti occidentali è un partito dalla chiara “matrice islamista” che ha come obiettivo quello di tirare indietro le lancette della storia eliminando il “secolarismo” dalla società turca e imprimendo una forte islamizzazione dei costumi e della morale; in buona sostanza, l’AKP sarebbe pronto – sempre secondo la propaganda occidentale atlantista – a fare della Turchia un paese teocratico. Questo tipo di interpretazione è fortemente respinta dai suoi esponenti principali. Secondo l’ex ministro Hüseyin Çelik, “sulla stampa occidentale, quando l’amministrazione AKP – il partito al governo della Repubblica turca – viene nominata, il più delle volte si usano aggettivi come ‘islamico’, ‘islamista’, ‘moderatamente islamista’, ‘islamico-orientato”, “basato sull’Islam” o “con un’agenda islamica” o sinonimi. Queste caratterizzazioni non riflettono la verità e ci rattristano”. Çelik ha aggiunto: “L’AKP è un partito democratico conservatore. Il conservatorismo dell’AKP è limitato alle questioni morali e sociali e rifiutiamo anche etichette come democratico-musulmano”. Erdoğan ha sempre affermato che l’agenda dell’AKP è limitata alla “democrazia conservatrice”. Come detto sopra, applicare le categorie politiche delle nostre parti non ci permetterà mai di capire la realtà politica turca. E quando a farlo sono i media mainstream, soprattutto americani, lo fanno perché l’etichetta “islamista” serve a suscitare nell’immaginario collettivo comune una sovrapposizione con ISIS, Al-Qaeda (finanziate e create dagli USA, ma questo è un altro discorso) o la sempiterna nemica repubblica islamica dell’Iran; una sovrapposizione funzionale, dunque, alla giustificazione di un’eventuale rivoluzione colorata in salsa turca.
L’altro grande partito dello scacchiere politico turco è il Cumhuriyet Halk Partisi – CHP (Partito popolare repubblicano, in italiano). Fondato da Mustafa Kemal Atatürk, il partito si autodefinisce socialdemocratico, europeista (essendo tra i principali sostenitori dell’adesione della Turchia all’UE), oltre che vicino alle rivendicazioni del mondo LGBTQ+. Il CHP è il principale partito di opposizione ad Erdogan, ma non è mai riuscito a scardinare il presidente turco e il suo gruppo di potere. Il CHP, però, al di là delle differenze culturali ed ideologiche in politica interna rispetto al governo, si è sempre dimostrato pronto (o prono, fate voi) a sostenere le iniziative di Erdogan, quali l’invasione della Siria nel 2016 a sostegno della “Opposizione Siriana” in funzione anti-curda e anti-Assad; l’intervento in Libia a sostegno del Governo dell’Accordo Nazionale di stanza a Tripoli; ma anche l’intervento in Iraq. Quindi, al di là della differenza di vedute sugli LGBTQ+, sul kemalismo – ossia l’ideologia base della secolarizzazione della Turchia – il CHP ha sempre sostenuto la “volontà di potenza” di Erdogan; una volontà che ovviamente è ben vista e sostenuta dalla rampante classe imprenditoriale turca, desiderosa di espandere i propri affari in giro per il mondo. Certo, Kiliçdaroglu – candidato proprio col CHP e fortemente sponsorizzato dalle cancellerie occidentali – è fortemente europeista e favorevole all’ingresso nella Nato della Svezia (e quindi, probabilmente, anche più sbilanciato in favore dell’Ucraina), una mossa che avrebbe dei chiari risvolti geopolitici, in un contesto storico molto teso. Tuttavia, a parte queste discrepanze sicuramente dirimenti fra i due partiti più importanti, il ruolo della Turchia nello scacchiere geopolitico sarebbe rimasto intatto anche con la sconfitta di Erdogan. Ma, visto il risultato, questa rimane una mera speculazione da rinviare fra cinque anni alle prossime presidenziali turche.
Il futuro della Turchia
Erdogan, dunque, continuerà a guidare la Turchia, tenendo ben saldo il timone di una nave che sembra imbarcare acqua, tra inflazione, crisi monetaria e crescita ormai stagnante da un quinquennio. Ma dovrà anche continuare ad agire abilmente come fatto finora, districandosi in un balletto cadenzato e mai fuori ritmo che ha permesso alla Turchia di diventare intermediaria fra Ucraina e Russia, sia per i (falliti) tentativi di un accordo di pace, sia per l’accordo sul grano ucraino; e mentre Erdogan si mostra come il migliore amico di Putin all’interno del Patto Atlantico, riesce persino a concedere l’ingresso della Finlandia nella Nato nonostante le rimostranze russe, ma dall’altra parte blocca l’ingresso della Svezia perché una seconda concessione gratis non è accettabile ed il prezzo da pagare è l’estradizione dei rifugiati politici curdi. Fa accordi con Putin, ma in Siria e in Libia spara, rispettivamente, contro Assad – storico alleato/vassallo di Mosca – e contro Haftar, il generalissimo libico che controlla mezza Libia anche col sostegno diplomatico russo e quello militare di Wagner. Questo suo movimento in ambito geopolitico, è chiaramente avversato dagli Stati Uniti e da tutto il baraccone atlantista. Una Turchia – già potenza militare, la seconda per numero di soldati e mezzi nella Nato dopo gli USA – indipendente dal punto di vista geopolitico e strategico diventa una variabile impazzita che porterebbe danno a chiunque, persino allo zio Sam che, questo va detto, finora ha lasciato fare, lussuriosamente, perché in qualche modo le azioni turche colpivano anche in nemici di Washington. Ma ora, soprattutto dopo l’operazione militare speciale russa, l’atteggiamento di Erdogan è troppo ambiguo ed inaccettabile per gli Stati Uniti
In conclusione, la Turchia si appresta a vivere i cinque anni più lunghi della sua storia ed il suo Sultano dovrà essere capace di farla danzare ancora sul filo del rasoio, conscio che dalle parti di Washington cominciano a stancarsi di lui.
Aureliano71 dice
Bisogna vedere se hanno la forza per rovesciarlo. Se l’esercito è fedele a lui è non alla catena di comando NATO potrebbe addirittura entrare nei BRICS.
A quel punto l’occidente tenterebbe la carta della rivoluzione colorata, a quel punto basta armare qualche banda di esaltati per inscenare false flag e mettere l’opposizione atlantista sul banco degli imputati.
In Italia con il PCI ha funzionato, Erdogan applichi le stesse strategie dell’occidente, se controlla le forze armate può farlo benissimo.